“… Mi disse che il far fortuna con iniziative avventate e acquistar fama con imprese fuori del comune toccava a uomini disperati o a coloro che aspirano per ambizione a raggiungere posizioni superiori alla propria; che si trattava di cose troppo in alto o troppo in basso per me, e che la mia condizione si poneva a un livello intermedio, cioè al gradino più basso fra quelli elevati, ed egli per lunga esperienza lo aveva considerato la miglior condizione di questo mondo, la più idonea a garantire la felicità dell’uomo, non esposta alle miserie e ai sacrifici, alle fatiche e alle angustie di quello strato dell’umanità che deve adattarsi al lavoro manuale, e al tempo stesso libera dalla schiavitù dell’orgoglio, dello sfarzo, dell’ambizione e dell’invidia cui soggiace la classe più abbiente… persino i monarchi si erano lamentati delle costrizioni dovute a una nascita che destina a grandi gesta e avevano deplorato di non trovarsi in situazione intermedia, tra i due punti estremi: il più piccolo e il più grande; che anche il saggio, quando pregava l’Altissimo acciocché non gli fosse dato di conoscere né la povertà né la ricchezza, testimoniava che in questo stava la vera felicità”.
Daniel Defoe – Robinson Crusoe
Il pezzo sopra riportato è tratto da un classico della letteratura. Come spesso dimostrato, i romanzi hanno un potere immenso, quello di mostrare al lettore di ogni tempo il pensiero e i modi di fare dell’essere umano in un passato, nel caso in esame, certamente non remoto ma inserito in un contesto storico molto differente da quello attuale. Correva l’anno 1719 quando Daniel Defoe dà alle stampe questo romanzo, ambientando lo stesso nel secolo precedente.
Quest’ultimo aspetto potrebbe essere atto a dimostrare che, tutto sommato, la visione di vita del padre del giovane Robinson Crusoe non è poi così diversa a un secolo di distanza da quando lo stesso esprime il suo pensiero.
Riprendendo il discorso affrontato all’interno dell’articolo precedente (qui), sembra che il concetto esternato dal genitore del giovane Crusoe rispecchi fedelmente il percorso che si staglia all’orizzonte del cammino di vita delle giovani generazioni.
Dalle poche righe riportate, si riscontra la volontà di vivere, e di far vivere, una vita piuttosto anonima, dove vengono frenate le potenzialità proprie di ogni singolo individuo. Si fa tutto ciò per evitare fatiche, secondo l’uomo, del tutto inutili, prediligendo una sorta di vita neutrale in grado di evitare l’emarginazione sociale, sfociante, in un secondo momento, in quella che abbiamo definito come solitudine distruttiva.
Allo stesso modo, si fa riferimento a una dimensione a cui tutti noi, probabilmente, facciamo poco caso, quella definita come la Solitudine del Re. Nel corso della storia si è fatto spesso questo riferimento, mettendo in risalto, in maniera negativa, quella intimità propria non solo dei sovrani ma che sembra accumunare tutti quegli individui impegnati in posizioni dove il potere, appunto, individuale è esponenziale rispetto a quello della società.
I timori provati dal padre di Robinson, nonostante il cambio dei tempi, sembrano essere molto simili anche in questo XXI secolo. A prevalere è la ricerca di una stabilità, economica e sociale, accompagnata da una vita fatta di tanta retorica e malesseri interiori. Questi ultimi sembrano essere causati da un potenziale inespresso che, protratto nel lungo termine, altro non può fare che sfociare in quel vuoto esistenziale chiamato in gergo depressione.
In altre parole, il voler evitare a tutti i costi l’individualità, vivendo nel miglior modo possibile la solitudine, porta l’essere umano a fare i conti con un mostro assai più pericoloso.
La depressione, infatti, non è un sentimento umano con cui poter interagire o discutere, trovando quel lato positivo del tutto assente quando utilizziamo questo termine.
Frenare il proprio potenziale, vivendo una vita senza alcuno stimolo e condotta con inerzia, risulta una condizione tossica sia per il singolo individuo sia per la società.
Nell’articolo precedente si è fatto riferimento, seppur marginalmente, agli scarsi risultati ottenuti dalla classe politica. Rapportando ciò con il discorso fin qui esposto, sembrano essere le nostre stesse istituzioni le prime a essere colpite dalla ricerca della mediocrità.
Si evidenzia tale problematica dal mancato sviluppo tecnologico e culturale a cui il nostro paese, e non solo l’Italia, è soggetto ormai da decenni. La mancanza di caparbietà, unita alla volontà di evitare le responsabilità, sembra lasciare la nostra stessa nazione in una sorta di limbo. Si continua a decantare, giustamente sotto alcuni aspetti, la bellezza e le evoluzioni di un periodo ormai remoto, come il tempo dell’Impero romano o quello del Rinascimento italiano, a discapito di un futuro fatto di pure congetture e tanta, forse troppa, prudenza.
Tutto ciò sembra accompagnare a sua volta la nazione in una sorta di solitudine dove non si riesce a interagire, e in questo caso cooperare, con realtà a noi vicino o, al contrario, tanto lontane. Nel caso ultimo si potrebbe parlare di Solitudine statica. In quest’ultimo caso, non sono i fenomeni esterni a dettare i tempi. Ciò sembra causata da una immobilità voluta, alla ricerca, appunto, di quella mediocrità in un primo tempo forse comoda, per tutti i soggetti che di essa si servono, ma pronta a trasformarsi da lì a poco in una bomba a orologeria sociale.
Eppure, come ben sappiamo, la storia non è stata sempre questa. In passato il concetto di mediocrità non sembrava essere contemplato. Per capire meglio di cosa stiamo parlando dobbiamo fare un viaggio indietro nel tempo. Ad attenderci ci sono i nostri antenati, artefici, come vedremo, del nostro presente, sia nel bene che nel male.
Grazie a questo salto temporale, cercheremo di capire come la stessa solitudine abbia preso forma. Per fare ciò, dobbiamo tornare alle origini dell’umanità.
Armando