Le due facce della solitudine – La globalizzazione del silenzio

Il nostro, seppur breve, racconto è arrivato ai giorni nostri. Il primo impatto con un passato nemmeno troppo lontano è sotto i nostri occhi: sebbene il rumore sia a oggi ancora presente, le nuove tecnologie promettono un cambio di passo radicale.

I motori a scoppio vengono pian piano rimpiazzati dai più performanti, e silenziosissimi, motori elettrici. I mastodontici televisori, così come i grossi personal computer, hanno lasciato il posto a dispositivi capaci di entrare in una sola mano. Al loro interno è stata introdotta una connettività in grado di permettere una comunicazione globale, lanciando l’uomo moderno bel oltre le sue più rosee aspettative.

Fino a ora, abbiamo associato il silenzio a quell’approccio positivo a quello stato d’animo denominato solitudine, che tanto bene, in passato, ha portato nelle vite dei nostri antenati.

Al giorno d’oggi, dove lo stesso silenzio ha cambiato la sua forma primordiale, cosa è rimasto di esso?

Nient’altro che rumore ovattato. All’interno del saggio intitolato Teoria sulla lettura si è, seppur in maniera e in modo diversi, affrontato il tema di quella definita come Società solitudine. All’interno di tale visione ognuno di noi sembra essere isolato fisicamente ma, allo stesso tempo, costantemente in connessione con il mondo esterno. Stiamo parlando di possibilità che se sfruttate al meglio posso portare a connessioni, legami e scambi culturali davvero interessanti.

Purtroppo però, da quando possiamo apprendere oggi, il magico mondo del web sembra essersi standardizzato in una sorta di isolamento, non definibile come solitudine, rumoroso. Questo universo cibernetico è popolato da strani video proposti da persone sconosciute, dalla possibilità di ascoltare musica, guardare i nostri film e le serie Tv preferite, allontanando i giovani e meno giovani da contatti più immediati e, soprattutto, da quel contatto intimo con sé stessi.

In questa Era digitale probabilmente non si può più parlare né di solitudine costruttiva né di solitudine distruttiva.

L’individuo, al giorno d’oggi, non ha più la possibilità di trascorrere del tempo da solo, godendo di quel silenzio necessario per poter innescare quel rapporto intimo con sé stesso, inesistente, purtroppo, in questo XXI secolo.

Un accessorio su tutti sembra essere diventato la nemesi, il nemico numero uno, della solitudine, di questo passo a rischio estinzione: le cuffie. È questo il nome di quello strumento atto all’isolamento, in grado, grazie all’assenza di fili e di dimensioni poco più grandi di uno spillo, di schermare chi ne usufruisce dal contesto che lo circonda.

Abbiamo la possibilità di osservare, per mezzo dei filmati, i cambiamenti della società nel corso del tempo. Che si trovi per strada, in metropolitana, all’interno delle palestre o in viaggio, l’essere umano moderno vivere la sua esistenza connesso a una vita fatta di schermi, suoni artificiali e pixel, ma guai a chiamare tutto questo con il nome di solitudine.

Anche in questo caso, così come nei molti discussi in precedenza, essa non prende parte a questa partita fatta di isolamento rumoroso, neanche quando gli stessi dispositivi chiamati in causa smettono di funzionare. Che sia per volontà propria o altrui fa poca differenza.

Il frastuono ricreato dal silenzio, una volta tolte le cuffie dalle orecchie, si trasforma in un malessere in grado di trascinare a fondo quell’ancora, adesso, senza alcuna salvezza a cui aggrapparsi. Guai, però, a imputare alla solitudine tale stato d’animo. Un nuovo nemico è in agguato, ponto a sbarrare la strada verso la felicità, verso l’appagamento personale. Adesso il nemico si chiama noia.

Arrivati a questo punto si dovrebbe arrivare a capire che le giornate passate davanti a quei dispositivi, con quel ronzio costante nelle orecchie, altro non è che fine a sé stesso, esattamente come una qualunque comunissima droga.

Una volta puliti, finalmente presenti a noi stessi, ci ritroviamo certamente soli ma, ed è qui la differenza, annoiati.

Tutti i nostri interessi digitali si sono annullati con un semplice tocco, dove quel tasto off rischia di spegnere non sono quel dato dispositivo ma, cosa ben peggiore, la nostra intera esistenza. Sembra essersi verificato quel problema espresso in poche righe da uno scrittore oggi, purtroppo, praticamente dimenticato, o mai conosciuto, che risponde al nome di Gianni Rodari. Proviamo ad analizzare insieme una sua celebre frase, forse erroneamente intesa in passato ma che con il nostro discorso sembra calzare fin troppo bene:

Vorrei che tutti leggessero,

non per diventare letterati o

poeti,

ma perché nessuno sia più

schiavo.

Gianni Rodari   

Per quanto riguarda l’aspetto legato al tema della lettura, conosciamo le problematiche derivanti dal distacco della società da una attività che tanto bene fa all’essere umano. In questa sede ci soffermeremo su un aspetto, su una parola probabilmente fraintesa nel corso del tempo da più di una generazione: il termine schiavo.

Anche nel caso in esame, l’utilizzo della singola espressione, strumentalizzata a dovere in chi vede all’interno della nostra società esclusivamente del negativo, rischia di aprire dibattiti del tutto fuori luogo. Questi rischiano principalmente di far competere, piuttosto che cooperare, coetanei e generazioni distanti fra loro.

Nel caso posto all’attenzione del lettore, l’uso della parola schiavo, da parte di Gianni Rodari, non si riferisce a una sorta di costrizione studiata e imposta da un governo tiranno.

Rodari, da grande uomo di cultura qual era, attento alle esigenze dei più piccoli, invita tutti noi a fare attenzione, non soltanto dal mondo che ci circonda ma soprattutto da noi stessi.

La schiavitù di cui parla è riferita a uno stato mentale, dove il soggetto si ritrova rinchiuso, praticamente accerchiato, da una miriade di distrazioni atte a non farlo pensare con lucidità.

Le stesse, identificate nel nostro caso con una cattiva fruizione dei dispositivi elettronici, oggi come in passato, non sembrano essere imputabili a cospirazioni governative, cause del malessere provato dall’uomo. È esso stesso il suo male.

Colpevole di una mancata ricerca di quel qualcosa in grado di far fare pace con sé stesso, con la società che lo circonda, in grado di far nascere quel sentimento di cooperazione da una solitudine, oggi grande assente, coperta da tanti, troppi rumori di fondo, distrazioni e futilità causa di quella mancata conoscenza personale.

Potrebbe essere il ritorno al silenzio attento la cura in grado di dar conforto all’essere umano, di oggi e di ieri. Una umanità smarrita in un deserto di immagini, suoni e rumori, colpevoli, a quando sembra, di reati mai imputati e, al momento, non ancora dibattuti.

Armando

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