Arthur Conan Doyle – La valle della paura

Sherlock Holmes riceve nel suo appartamento di Baker Street un messaggio in codice. Il mittente, un misterioso “pentito” dell’organizzazione del professor Moriarty, l’eminenza grigia della malavita londinese. Manca la chiave per decrittare il messaggio, ma poco dopo arriva una seconda lettera in chiaro che annuncia che la chiave non arriverà perché il misterioso mittente teme di aver suscitato i sospetti del professore. Nonostante ciò Holmes, basandosi soltanto sulla struttura del messaggio, riesce a decifrare la soffiata, che anticipa un pericolo per un certo Douglas domiciliato a Birlstone. È solo il primo dei misteri che la vicenda propone: infatti, nella stessa mattinata, si presenta a casa di Holmes un ispettore di Scotland Yard, per annunciargli che è richiesta la sua presenza perché in nottata è stato commesso un delitto nel maniero di Birlstone e la vittima è il proprietario della magione, un certo Douglas, un americano… «La valle della paura» è il quarto e ultimo romanzo di Conan Doyle che ha come protagonista Sherlock Holmes, ed è tra questi sicuramente il più maturo. Qui Doyle porta a un bilanciamento perfetto la formula già vista nei primi tre romanzi dedicati al celeberrimo inquilino di Baker Street: una prima parte di pura detection e una seconda che narra gli antefatti con il respiro del romanzo d’avventure.

Ho preferito iniziare la lettura dei romanzi dedicati al famoso detective inglese partendo dall’ultimo pubblicato in ordine di tempo. Il mio intento era quello di capire perché Sir Arthur Conan Doyle arrivò a disprezzare la sua creatura tanto da cercare di eliminarla prematuramente. Il romanzo in questione è una espressione, anche se ben velata, dell’astio che lo stesso scrittore inglese provava nei confronti di Sherlock Holmes. Narrato in prima persona, a parlare è l’altrettanto famoso John Watson. Da questa lettura non posso far altro che evincere che lo stesso personaggio rappresenti il doppio, se vogliamo scomodare Stevenson, dello stesso Conan Doyle. Per quanto quest’ultimo mostri una sorta di malessere nei confronti del famoso detective, ne La valle della paura trovo solo note positive di cui parlare. È un testo preciso, capace come pochi altri di coinvolgere il lettore all’interno di una indagine complessa ma, allo stesso tempo, risolta con una semplicità disarmante da quel genio di Holmes. Sembra quasi di assistere a momenti di vita reale, la dimensione – libro non è presente per tutto l’andamento della vicenda. La psicologia dei personaggi è praticamente perfetta, capace di arrivare al lettore in maniera diretta; lo scambio di battute tra Holmes e Watson sono una pregevole rappresentazione dei sentimenti dell’autore verso colui che gli ha conferito quel successo letterario capace di durare per secoli. C’è una storia nella storia in questo testo. È questa la meraviglia che lascia l’autore ai posteri. C’è un’indagine; ci sono altri attori, protagonisti e non, che prendono parte alla vicenda; ci sono Sherlock e John, amici, soci e complici, capaci, allo stesso tempo, di mostrare un terzo personaggio rimasto celato agli occhi dei lettori meno attenti. Questo si chiama Arthur Conan Doyle, individuo che i due non hanno avuto il piacere di conoscere ma, al contrario, un individuo che conosce bene entrambi. C’è un gioco di ruoli all’interno de La valle della paura che non ha precedenti, a mio modo di vedere, in letteratura. Fantastico.

Punteggio:

Armando

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