Prison Break: le esecuzioni capitali

Fin dai tempi più remoti, l’essere umano ha optato per questa scelta:

Se ti macchi di un grosso crimine meriti solo di morire

È un diktat che si può osservare in lungo e in largo su tutto il globo, in un punto del tempo scelto a caso e in qualsiasi contesto che la società ci ha proposto. Nonostante la pena capitale sia stata abolita in gran parte delle nazioni, ci sono culture che rimangono ancorate a un mezzo che non permette al condannato una possibilità di redenzione. Sempre più spesso ci si è chiesti se questa sia davvero la soluzione migliore per affrontare un individuo e la sua colpa; si è parlato più volte, in tutti i toni disponibili, conditi da tutte le salse filosofiche del caso, di quella seconda possibilità da dare a chiunque, in modo da evitare così la fine definitiva. Per quanto i mezzi usati per conferire la fine siano andati a evolversi con il tempo, cosa che di certo questo articolo non vuole gratificare, una buona fetta della popolazione mondiale vede questa condanna come “buona e giusta”, capace di dar pace a chi per sua sfortuna ha incrociato la strada dell’individuo adesso sul banco degli imputati. Naturalmente, i dibattiti pro sono sempre facili da fare quando sotto Madama ghigliottina, tanto per fare un esempio in classico stile francese, c’è il collo di qualcun altro e non il nostro. Tutta questa retorica è servita non per proporre un sondaggio su quanto sia “gradita” la pratica dell’esecuzione capitale, bensì per provare a immedesimarsi, mettersi davvero nei panni, nel condannato, provando a percepire le sensazioni e i pensieri che lo stesso prova una volta sotto accusa. A tal proposito, vi rimando a un interessantissimo testo che ho recensito qualche tempo fa. Victor Hugo, con L’ultimo giorno di un condannato a morte, ha provato sulla sua pelle la sensazione di quel condannato protagonista della nostra discussione:

https://armandolazzarano.altervista.org/victor-hugo-lultimo-giorno-di-un-condannato-a-morte/

A tutto questo voglio aggiungere quel pensiero che sta alla base di questo argomento trattato a puntate. Dopo avervi illustrato la vicenda di Lincol Barrows (per chi non avesse letto l’articolo eccolo: https://armandolazzarano.altervista.org/prison-break-lesecuzione-di-lincoln-burrows/) e la sua “fine” a sorpresa, mi domando:

C’è qualcuno, chissà, che può essere interessato a questo tipo di esecuzione? Ci sono, insomma, i presupposti per un “fallimento volontario” di quella stessa esecuzione oggetto della nostra discussione?

A mio modo di vedere, possibili interessati possiamo trovarne a bizzeffe. Non al cadavere di un uomo ormai finito, nossignore. Quella è una prerogativa, come ben sappiamo, di pittori e scultori del rinascimento, come Leonardo o Michelangelo, che hanno bisogno di sezionare i cadaveri per poter rendere le loro opere ancora più dettagliate e realistiche. Oggi sappiamo tutto, o quasi, del corpo umano, e comunque con le tecnologie in nostro possesso non c’è più alcun bisogno di usare tecniche così rudimentali e, diciamolo pure, macabre. Serve altro, e non di certo un corpo morto per poter mandar avanti…le ricerche? Di questo parleremo la settimana prossima.

Armando

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