Le due facce della solitudine – La solitudine di Primo

Quella che affronteremo in questo articolo è una variante della maledetta solitudine che non avrebbe mai dovuto prendere forma. La storia di Primo Levi ha una sfumatura ben diversa rispetto a quelle fin qui proposte.

Nato a Torino del 1919, tutto si sarebbe potuto aspettare dalla vita tranne di doversi fare carico di una cronaca che se non tramandata a dovere, e soprattutto capita, nel tempo rischia di ripetersi. La sua vita da adolescente prende una piega negativa ben diversa probabilmente troppo presto.

È un bambino quando Benito Mussolini marcia su Roma, buttando già il primo tassello di un domino che trascinerà la nazione in uno dei periodi più neri di tutto il novecento.

Non sa ancora di essere figlio di genitori di religione ebraica. Sarà questo il marchio che segnerà da lì a pochi anni tutta la sua esistenza. Nonostante la sua formazione superiore sia classica, è in sede universitaria che Levi decide di virare completamente verso le materie scientifiche.

Si iscrive al corso di laurea in chimica. Le cronache lo descrivono come una persona chiusa e riflessiva, di poche parole sin dalla giovinezza.

Il suo essere introverso lo porta a maturare idee e pensieri probabilmente poco influenzati dai pareri, e nel suo caso dalle offese, che arrivano dall’esterno. Se vogliamo trovare un lato mistico all’interno della sua storia di vita, potremmo affermare che il cambio radicale riguardante l’indirizzo di studio è stata la scelta che gli ha salvato la vita pochi anni dopo. Pagherà, come vedremo, tale scelta a caro prezzo.

Non possiamo definire la sua infanzia e adolescenza in relazione alla solitudine. A differenza di Marilyn e Elvis, la sua vita passerà dai riflettori solo in un secondo momento, quando ormai il Primo Levi pre-guerra non esisteva più.

Ma torniamo ai fatti. Il giovane Primo si laurea, a pieni voti e con lode, nel pieno della seconda guerra mondiale, nel 1941. Chissà fino a quel momento quante volte era già stato discriminato. Certo è che neanche la conclusione degli studi universitari riesce a mostrare il potenziale di un ragazzo che avrebbe potuto dare tanto alla società e alla sua nazione.

Sul suo diploma di laurea campeggia una sigla che risulterà un sinistro presagio: di razza ebraica. Potrebbe essere stato questo il punto di inizio in cui la maledetta solitudine si è materializzata. Proviamo a immedesimarci, a immaginare il suo stato d’animo con quel marchio sulla fronte.

Se di solitudine al momento non si può probabilmente parlare, è certo che lo zampino dell’emarginazione sia stato presente. Proprio questo potrebbe essere stato il mezzo in grado di aprire una voragine all’interno dell’animo già tormentato di un ragazzo, non ancora uomo, alle prese con una situazione incomprensibile per tutti coloro che vivono, come il nostro protagonista, una cultura a tutto tondo.

Come afferma lo stesso Levi in un interessantissimo documentario curato da RAI News, «Primo tra gli umani». Primo Levi a 100 anni dalla nascita, il giovane Primo, catturato nel 1943 dai nazisti, a soli ventiquattro anni, una prima prigionia la vive qualche tempo prima.

Infatti, Primo Levi si era già rinchiuso in sé stesso nel quattro anni precedenti, quando in Italia entrarono in vigore le leggi razziali, il 17 novembre del 1938:

«in un suo mondo scarsamente reale».

Alla luce di quest’ultima affermazione, non si può non notare la volontà da parte dello stesso di voler familiarizzare con uno stato d’animo come la solitudine.

Naturalmente, come già affermato, Primo Levi non poteva immaginare quali condizioni, sofferenze e immagini lo avrebbero travolto negli anni successivi.

In questa prima fase della sua vita, con una laurea in mano, un lavoro stabile come chimico a Milano, e la sua lotta interna contro la discriminazione, il giovane Primo affronta un viaggio dove i peggiori incubi dell’essere umano diventano realtà. Il tredici dicembre del 1943 viene arrestato, iniziando la sua personale discesa verso l’inferno.

Dopo essere passato per il campo di raccolta di Fossoli, in provincia di Modena, la sua destinazione finale è la Polonia.

Il Levi è ignaro di quanto lo attende. In un passaggio di quello che è probabilmente il suo libro più celebre, Se questo è un uomo, descrive bene il buio che oscurava un nome passato alla storia come un angolo di inferno in terra:

«Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora, per noi».     

Arriva nel campo di sterminio il 22 febbraio del 1944… dove Primo levi muore per la prima volta. A permettergli una permanenza diversa, rispetto a quella degli altri deportati, è la sua conoscenza del tedesco è, soprattutto, la sua specializzazione in chimica. Queste fortuite circostanze lo porteranno a Monowitz, dove il prigioniero italiano lavorerà, fino alla liberazione, in una fabbrica di gomma.

Probabilmente, è errato pensare che le atrocità viste e vissute siano le situazioni a cui imputare la maledetta solitudine che, proprio all’interno di quel campo, si manifesterà per non lasciarlo mai più.

Più delle sofferenze fisiche, delle offese o dello stesso annientamento a cui lui e i suoi compagni di prigionia sono soggetti per mano dei nazisti, a togliere il sonno e la pace a Primo Levi è proprio quel ruolo di privilegiato che si è trovato a ricoprire. Una volta uscito da quel campo di prigionia, la sua mente e il suo pensiero vengono rinchiusi in una nuova gabbia, quella del rimorso.

Questo sentimento di colpa sembra emarginarlo persino da coloro i quali come lui sono scampati, almeno fisicamente, all’inferno ricreato in territorio polacco. Inizia a considerarsi tra gli altri un sommerso raccomandato, pensiero che lo consumerà dall’interno fino a quella decisione ultima arrivata l’undici aprile del 1987.

Nonostante parlerà ampiamente di quanto vissuto in quegli anni all’interno dei suoi libri, nelle interviste e negli incontri, avvenuti soprattutto nelle scuole nel tentativo di smuovere le coscienze dei più giovani, esternamente non mostrerà mai il volto di quella sofferenza.

Nonostante sia descritto come un uomo schivo, la sua pacatezza e sobrietà mostrano al mondo un individuo se non in pace con sé stesso pronto, certamente, a non perdersi d’animo. Era convinto fosse la scuola il luogo migliore dove tramandare le sue esperienze, in modo che non si ripetano più situazioni simili.

Levi si pone con gli studenti, così come con qualsiasi altro suo interlocutore, sia su carta che dal vivo, come un comunicatore sublime. Era convinto che una comunicazione educata e pacata fosse il mezzo migliore. Mostrerà a tutto il mondo la lezione più importante.

Misura ogni sua parola con attenzione. Non ricerca mai la vendetta ma sceglie la strada del dialogo come mezzo in grado di arginare il razzismo, figlio non di certo della natura umana.

Accredita tale problema a una mancanza di informazioni tali da rendere il prossimo come nient’altro che uno sconosciuto, una minaccia a quel microcosmo vissuto e condiviso, nel caso nazista, da pochi individui in grado di seminare il terrore nonostante il loro numero ridotto.

Nonostante il suo infaticabile impegno, qualcosa nel profondo si è rotto in maniera irreparabile. Ad amplificare tale stato d’animo arrivò un nuovo pensiero nocivo. Con il passare dei decenni, vengono messi in discussione i racconti dei sopravvissuti all’olocausto.

Lo stesso Levi, all’interno del documentario già menzionato, afferma in una intervista di essere costretto a confrontarsi spesso con altri individui che come lui hanno vissuto quella esperienza.

È probabile che a farsi largo all’interno dei suoi pensieri una nuova consapevolezza si stava materializzando, portando con sé inevitabili conseguenze. Da uomo riflessivo quale era, non è difficile immaginare un Levi proiettato in un futuro dove l’attenzione verso la Shoah andava scemando fino a esaurirsi.

Cosa sarebbe accaduto dopo?

Un essere umano che non impara dai propri errori è destinato a commetterli nuovamente. Questo pensiero allontana ancora di più Primo Levi da una società troppo poco attenta al passato. La maledetta solitudine, arginata in un primo momento dalla volontà di raccontare al mondo la sua storia e quella dei suoi sfortunati compagni di disavventura, si rafforza a tal punto da non dare più pace a un uomo segnato non solo da quel tatuaggio nero, numero 174 517, ma da un malessere divenuto troppo forte da poter combattere.

A noi tutti lascia un insegnamento di vita che va oltre le apparenze. Secondo Levi, dialogo e comunicazione sono gli strumenti su cui basare le nostre vite, trasformando le sofferenze in un mezzo in grado di far, appunto, dialogare individui agli antipodi. Insegna al mondo il rispetto verso il pensiero libero del prossimo da cui poter attingere, laddove possibile, insegnamenti in grado di migliorare la vita dell’essere umano… senza mai dimenticare un passato a cui bisogna necessariamente fare constante riferimento.

Armando

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