Le due facce della solitudine – La solitudine di Elvis

Prima di Elvis non c’era niente.

John Lennon       

È una leggenda della musica come John Lennon a mettere il punto esclamativo sul talento di Elvis Presley. Con la sola affermazione sopra riportata, la maledetta solitudine sembra affacciarsi a osservare la sua prossima preda.

Eppure, talento a parte, l’ascesa di quel ragazzo che sarebbe diventato il Re del Rock N’ Roll promette un finale ben diverso rispetto a quello andato in scena.

Nonostante fosse cresciuto in condizioni economiche precarie, così come ci racconta Paolo Borgognone in Elvis. La parabola immortale di «The King», al giovane Elvis non è mai mancato l’affetto e il supporto derivante da quel nido familiare venuto meno, come abbiamo visto, a Marilyn Monroe. Sembra proprio che lo spettro della maledetta solitudine non si sia manifestato all’interno di questo primo scorcio di vita.

Certamente Elvis non era un individuo comune. Questo aspetto non vale soltanto per quanto riguarda la musica.

Grazie al suo carattere introverso, che gli ha permesso di fare scelte difficili senza curarsi troppo delle conseguenze e dell’opinione altrui, non ha problemi nel fraternizzare con i coetanei di colore. Lo fa in un momento storico dove, ci troviamo negli anni 50’ del secolo scorso, le differenze razziali non solo sono marcate in società ma gestite e imposte dalla legge. Sembra essere questa la prima ribellione a cui va incontro il giovane Elvis. Passa tutto il suo tempo in Beale Street, noto quartiere nero sito nel centro di Memphis, Tennessee. È in questo contesto culturale che l’amore per la musica sboccia definitivamente. Elvis deve tutto a quel quartiere e alla sua gente, soprattutto a quegli artisti capaci di mostrare al giovane bianco, accettato dalla comunità senza riserva alcuna, come si fa musica dalle loro parti.

Il canto è accompagnato da movimenti del corpo del tutto inediti per quella arte interpretata dai bianchi, fino a quel memento, con la sola voce. Circondato dall’affetto della famiglia e da quello di amici veri con cui condividere momenti felici, con buona pace di una società mondiale in gran parte razzista, la vita del nostro protagonista sembra priva di quella solitudine fin qui vista e analizzata.

Non ancora ventenne, la futura leggenda del Rock inizia la sua ascesa. Con una voce impostata e sicura, in netta contrapposizione con il suo carattere, accompagnata da quei movimenti violenti, dove bacino e gambe sembrano avere vita propria, inizia un percorso destinato a cambiare il volto della musica in tutto il mondo.

Il pubblico non ha dubbi: ama quel ragazzo apparso dal nulla, sconosciuto fino a pochi istanti prima, pronto a mandare in pensione tutti quei cantanti vecchia scuola.

Dello stesso avviso non sono, però, alcuni dei vertici politici americani, disturbati non tanto dalle sue movenze ma da quella che sembra una vera e propria apertura nei confronti dei cosiddetti neri d’America.

Quel ragazzo bianco sta tendendo la mano a una comunità denigrata, limitata nella sua libertà personale e considerata, sia dai potenti che dai suoi concittadini bianchi, inferiore per il solo torto imputato a quel colore della pelle. Nonostante a quei tempi il nostro protagonista non fosse ancora la stella che oggi conosciamo, lo si può tranquillamente considerare un pioniere per quanto riguarda la questione razziale in America. Arrivati a questo punto della storia, troviamo un Elvis lodato e osannato da parte della società americana, di colore e bianco senza distinzioni, e con nemici potenti da cui guardarsi le spalle.

In tutto ciò la solitudine sembra ancora non pervenuta. Alla famiglia e agli amici più cari si affianca l’amore di un pubblico vasto e, probabilmente, inaspettato.

In questo caso, ci siamo forse sbagliati?

Fino a questo momento di vita nulla sembra poter andare per il verso sbagliato. Il ragazzo è sfrontato, sicuro di sé e dei suoi mezzi, amato da un numero sempre maggiore di persone. Da lì a breve, Elvis pagherà il suo modo di fare del tutto inedito, tanto quanto non gradito da chi non accetta compromessi.

La sua seppur breve carriera ha, tra il 1958 e il 1960, una battuta d’arresto. Secondo il film a lui dedicato, ultimo in ordine di tempo, intitolato Elvis, diretto da Baz Luhrmann, fu una punizione politica quella di volerlo allontanare dagli States. La leva militare a cui fu soggetto, solo pochi anni dopo aver iniziato la sua attività da musicista, creò non poche perplessità nell’opinione pubblica.

L’America stava allontanando un giovane ragazzo soltanto perché esponeva e dimostrava idee diverse, di inclusione sociale e di libertà, rese ancora più marcate da quella musica e da qui gesti mai visti prima. Spedito a svolgere il suo dovere da militare in Germania, è in questo momento che la solitudine si manifesta probabilmente per la prima volta. Il giovane Elvis si ritrova senza il conforto, il consiglio e l’affetto di quella famiglia, fondamentale nella sua vita.

La pillola più amara da mandar giù, da cui Presley non si riprenderà mai, arrivò proprio durante la sua permanenza in Europa. Il 14 agosto del 1959, sua madre, Gladys, muore. È il dolore più forte, quello mai provato prima. Le cronache descrivono il rapporto tra madre e figlio come morboso.

Impossibile, alla luce di ciò, non immaginare un Elvis smarrito. La sua buona sorte, però, non lo abbandona, regalandogli la compagnia di Priscilla Beaulieu, conosciuta durante il servizio militare in Germania. Sarà la donna che diventerà da lì a pochi anni sua moglie.

In un primo momento, la presenza di Priscilla si rivela il suo scudo, capace, se non di allontanarla definitivamente, di arginare la maledetta solitudine. Tra un film, un concerto e una nuova intervista, la stessa si farà largo nella vita di quell’individuo che, rientrato dal servizio militare, non sarà più lo spensierato ragazzo di un tempo. Negli anni successivi, i continui impegni del cantante lo allontaneranno sempre di più dalla sua cerchia primordiale.

Né Priscilla, sposata nel 1967, né Lisa Marie, sua figlia, nata nel 1968, riusciranno a tenere a bada il demone che, sin da quel caldo giorno dell’agosto del 59’, continuava a crescere, divorando Elvis dall’interno.

La continua ricerca del lusso, unito all’avvicinamento a persone tossiche, lo spingono in una direzione che porta dritto alla maledetta solitudine. Diventa dipendente dall’alcol, dagli ansiolitici e dalla droga più potente di tutte: il palcoscenico.

Continua a esibirsi anche quanto il fisico non glielo permette. Gli applausi del suo pubblico sono l’unico conforto per quel ragazzo, in un passato non troppo lontano, dedito agli affetti più cari. In questo momento della sua vita, che avrebbe dovuto sancire la maturità dell’uomo prima di quella dell’artista, Elvis Presley decide, su consiglio della maledetta solitudine, di isolarsi all’interno di quella gabbia in apparenza dorata. La sua vita sregolata, unita ai cattivi accordi sottoscritti con il suo manager, porta nuovi pensieri, fatti di problemi economici che costringono l’artista a un lavoro doppio per poter mantenere intatto il suo stile di vita.

Tutto questo allontana Priscilla, adesso non più il faro della sua esistenza. È il 1972 quando la ragazza, sua moglie, decide di mettere la parola fine a quella relazione che rischia di trascinare anch’essa a fondo.

Si consolida quella separazione che trascinerà definitivamente Elvis tra le braccia della maledetta solitudine. Lo stato d’animo distruttivo si è ormai concretizzato, schermato solo parzialmente, e per un tempo brevissimo, dalle urla di un pubblico non in grado di dar conforto a un individuo cresciuto e vissuto con persone capaci di regalargli quella tranquillità che adesso non ha più.

Le nuove relazioni non riescono a migliorare la sua condizione mentale. Tutti vogliono la Rock Star, condividendo con lui le luci della ribalta. Elvis, come Marilyn prima di lui, è surclassato dal suo personaggio, relegato a nient’altro che un ricordo nella sua mente. Al suo posto c’è uno sconosciuto, un uomo di grande talento ma che alla società serve solo ed esclusivamente per il suo divertimento.

Isolato e ormai depresso, è il 26 giugno del 1977 quando il palco lo ospita per l’ultima volta. A fare spettacolo non c’è più quell’animale da palcoscenico delle origini. Al suo posto un uomo di quarant’anni in sovrappeso, con una salute cagionevole e grosse difficoltà motorie. La voce è la sua unica consolazione, l’unico mezzo che non lo abbandonerà mai.

Elvis Presley viene consegnato alla leggenda circa due mesi dopo. Era il 16 agosto del 1977. In compagnia di quella solitudine maledetta, questa volta auto inflitta, imputabile solo parzialmente a fattori esterni, anche la stella del Rock entra di diritto all’interno di quella cerchia dove una forza distruttiva non fa sconti a nessuno.

Armando

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