Il rugby

È uno di quegli sport in ascesa, soprattutto negli ultimi decenni, nel nostro paese. Snobbato per molto tempo, probabilmente perché etichettato come troppo duro, questa attività sportiva è rimasta nell’anonimato per quasi un secolo. Sembra assurda una cosa del genere visto che il rugby in Italia ha un suo campionato di riferimento dal lontano 1929. Perché ci sono voluti quasi cento anni per arrivare alla ribalta nazionale? Come ben sappiamo, e come ho spesso ribadito in questa rubrica, non solo questo sport ma anche a molti altri viene preclusa la strada dell’informazione per colpa di attività dominanti. Il riferimento è chiaro, è sempre colpa del calcio che, quasi fosse una patologia, infetta tutto il popolo italiano o comunque una buona parte di esso. Il rugby è sì caratterizzato dalla fisicità del gioco ma rispecchia in se tutti i parametri positivi che riguardano il buon consumo, sia da giocatore che da spettatore, di questo sport. Il rispetto dell’avversario è alla basa di questa disciplina. È da qui che basta partire per poter traghettare il giovane praticante verso quella maturità che tanto agogna ma che viene preclusa dalla nostra stessa società incapace d’inculcare tale valore come si dovrebbe. Non sono qui per spiegare le regole del gioco ma solo e soltanto per fare una panoramica su quali canoni vengono utilizzati in questa disciplina. Fondamentale, oltre all’attività in se, è quella parte dedicata a fine partita al cosiddetto terzo tempo. Cos’è il terzo tempo? A fine match i vincitori aspettano all’uscita gli sconfitti applaudendo sportivamente la loro prestazione. Un tributo e un bel modo di concludere quello che dovrebbe essere prima di tutto un attività ricreativa. Probabilmente è anche grazie a introiti economici molto ridimensionati rispetto ad attività sportive più blasonate a permettere tutto ciò. Di conseguenza qui entra in gioco un parametro fondamentale: l’etica che sta alla base del Rugby avrebbe permesso tale situazione anche in condizioni economiche diverse?

Armando

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