Enzo Tortora, un martire in pasto alla società

Sono trascorsi ormai trent’anni dalla morte di Enzo Tortora. Un personaggio televisivo che ha accompagnato gli spettatori italiani sin dalla nascita di questo mezzo che ha cambiato radicalmente le nostre vite. Il famoso presentatore è stato al centro, come ben saprete, di uno dei casi di mala giustizia, probabilmente il primo, andato in onda praticamente minuto per minuto. Si, infatti è questo il calvario che ha vissuto quest’uomo. Sempre educato, sorridente e pronto ad accompagnare ospiti in studio e tutti i cittadini seduti sul divano in una programmazione, quella dell’epoca, dove il bon ton unita alla cultura del fare spettacolo erano i criteri principali da seguire. Oggi non voglio soffermarmi sulle cause che hanno portato Tortora davanti ai giudici ma bensì gettare uno sguardo su quel tribunale mediatico tanto in voga in questi nostri anni 2000 tanto quanto all’epoca. Possono essere cambiate le generazioni, le tecnologie hanno fatto un salto in avanti come non mai ma l’essere umano resta sempre uno scimmione a quanto pare. La vicenda di Enzo Tortora è stata data in pasto al pubblico. Quegli stessi spettatori, non tutti ma una buona parte, che fino a pochi giorni prima lo elogiava, gratificava con applausi e rispettava considerandolo un signore. Quegli stessi telespettatori che non hanno aspettato che pochi istanti per puntare il dito contro di lui. Senza un sé e senza un ma solo perché i media avevano fatto intuire una colpevolezza schiacciante nei suoi confronti. Per chi non conoscesse i fatti, nel giugno 1983 Enzo Tortora venne accusato di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Una dichiarazione dell’epoca, espressa non da un cittadino qualsiasi ma da un pensatore e professionista della cultura come Leonardo Sciascia, recitava sul caso in questione all’incirca così:

«Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa in “innocentisti” e “colpevolisti” – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Il caso Tortora è in questo senso esemplare: coloro che detestavano i programmi televisivi condotti da lui, desideravano fosse condannato; coloro che invece a quei programmi erano affezionati, lo volevano assolto.»

Leonardo Sciascia

Non vi sembra che Sciascia si stia riferendo a quelli che oggi chiamiamo haters, coloro i quali opinano nella nostra società moderna, avvalendosi dei social network, senza una base per poter intavolare una discussione? Anche Umberto Eco si è espresso in merito a quest’ultima questione non molto tempo fa:

 «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».

Umberto Eco

 

Morale della favola? Per quanto cambino le epoche e i mezzi di comunicazione, l’improvvisarsi opinionisti, che sia il bar sotto casa o davanti a un PC, quando il problema non riguarda naturalmente noi, è da sempre il lavoro prediletto di questo animale bipede chiamato uomo. “Non mi interessa sapere i fatti”, sembrano voler affermare questi signori, “ho un motivo di discussione e questo mi basta”. È una riflessione triste quella che ho affrontato questa mattina. Una tematica avvalorata dai dati e da tutte quelle sentenze sociali che sono andate, vanno e andranno in scena sempre se non si decide di cambiare passo e aprire a una visione più ampia rispetto al piccolo praticello davanti casa.

Armando

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